A tu per tu con Silvia Celeste Calcagno

2 Dicembre 2019

In occasione della presentazione dell’opera Eye Verbal Motor, recentemente donata al Museo della Ceramica, la Direttrice Tiziana Casapietra ha intervistato l’autrice Silvia Celeste Calcagno. Durante la conversazione, l’artista parla dell’opera, dei suoi lavori più recenti, della sua infanzia e della sua formazione.

“Eye Verbal Motor”, 2019. Installazione al Museo della Ceramica di Savona.

 

Tiziana Casapietra: Chi è la figura ritratta nel lavoro Eye Verbal Motor?
Silvia Celeste Calcagno: La protagonista ritratta sono io, come spesso accade nelle mie opere. Uso il mio viso, il mio corpo, come strumenti per comunicare concetti che si fanno universali.

TC: A quali concetti universali ti riferisci?
SCC: La mia ricerca si basa sul mappare storie a basso voltaggio, parlo di quotidianità. Tra le pieghe della quotidianità nascono i grandi temi: la vita, il dolore, la morte ma anche la rinascita. Questi sono i concetti universali a cui faccio riferimento. Partendo da un lavoro autobiografico arrivo a una totale spersonalizzazione di me stessa e della mia figura e l’opera diviene specchio, ma non necessariamente riflettente. Quest’opera in particolare, Eye Verbal Motor, tocca un tema importante. Il titolo è un palese riferimento alla Glasgow Coma Score, scala di valutazione neurologica che rimanda a uno stato di incoscienza in cui il corpo viene sottoposto a stimoli che ne determinano le reazioni. Un tema universale dunque, il coma, il sonno “diverso” dal sonno, dove non è possibile decidere di svegliarsi né di essere svegliati. Attraverso la reiterazione ossessiva, il travestimento, diventando la maschera di me stessa, ho cercato di varcare la soglia del buio di un dolore che mi ha toccato personalmente; ho chiesto silenzio, ripetendo la mia figura “sfigurata” e “trasfigurata” come se stessi recitando un mantra, distillando una realtà talmente dolorosa da essere inaccettabile.

TC: Vuoi raccontare come hai tradotto questa storia in Eye Verbal Motor, magari spiegando anche come hai realizzato, strutturato e costruito il lavoro?
SCC: Un episodio drammatico ha scosso improvvisamente la mia vita portandomi via una persona alla quale ero legata dall’infanzia. Ho iniziato a interessarmi al mistero del coma, a come siamo classificati semplicemente in base a una scala di valori che si fonda su tre tipi di risposta (oculare, verbale e motoria) attraverso dei numeri, dei “punteggi” che determinano lo stato di incoscienza. Questa scala è nata nel 1974, anno di nascita mio e della persona cara che ho perso. Ho trovato anche questo dettaglio una coincidenza singolare, quasi beffarda. Da quel momento, ho iniziato a interrogare la mia testa impazzita e incapace di accettare un avvenimento così feroce e repentino.
Eye Verbal Motor è figlio della rabbia e dell’impotenza alla quale ognuno di noi deve arrendersi.
Sono nate una serie di constatazioni fotografiche, nelle quali attraverso travestimenti, camuffamenti, assumo un’identità altra. Quest’operazione mi è servita ad allontanarmi da me stessa e a ragionare su come pochi dettagli possano farci diventare “estranei”, a come in un attimo il nostro viso si trasformi e i lineamenti ai quali siamo abituati, diventino inutili tracce schiacciate dal peso della morte.
Ho messo in scena la commedia di me stessa, la commedia di ognuno di noi; mi interessava arrivare ad allontanare i miei dati oggettivi. Ciò che mi ha segnata è come i dati fisici di una persona siano stati brutalmente e improvvisamente rovesciati dai liquidi del corpo che hanno invaso il capo, facendo dimenticare il sembiante, rendendo il viso una maschera, andando ad agire sui ricordi, portandosi via tutto, strappando il reale.
Tutto questo è avvenuto in modo ovattato, avvolto da una settimana di pace agghiacciante chiamata “coma”, una parola che deriva dal greco κῶμα “sonno”; anche questo dettaglio mi ha colpito: la calma, la tranquillità della parola sonno, il significato che nella quotidianità le si attribuisce: il sonno ristora. No, il sonno ha ucciso.
Le constatazioni sono state a loro volta “traumatizzate” in post produzione, un procedimento che richiede molte ore di lavoro. Attraverso una perizia ossessiva ho colpito ogni dettaglio, affinché l’immagine fotografica definitiva fosse esteticamente compromessa e pronta a lanciare un messaggio preciso. L’occhio (Eye), la bocca (Verbal), l’espressione (Motor) ora enfatizzati, ora assenti, ora sfregiati, formano una sorta di trittico, dando vita a una maschera disumana, che nei successivi procedimenti tecnici assume la sua forma conclusiva e si fissa con una sorta di calma apparente figlia del dolore dal quale il tutto ha origine.
Trasposto, con una tecnica frutto di molti anni di ricerca, i soggetti divengono alieni, la fotografia perde indizi diventando cronaca di un unicum con la materia. Una terra contaminata, come un corpo contaminato dallo shock improvviso che strappa la vita, per lasciare uno spazio incolmabile al vuoto del dolore dell’esistenza.
La vita a volte sbobina cinematograficamente la realtà. In questo lavoro, frutto dell’ira per l’ineluttabile, c’è un palese riferimento iconografico a una pellicola, in particolare alla locandina del film e in parte alla trama: Lady Vendetta, un lavoro di Park Chan-wook, uno dei registi che amo, dove la protagonista Geum-ja tenta invano di pareggiare i conti per salvare la propria anima ma l’angoscia di salvezza la porta tuttavia a precipitare nella disperata ricerca di condurre un’utopica vita pura, “bianca”. Nel caso di Eye Verbal Motor, il volto muta al confine con l’invisibile in cerca di un futuro che si beffa del presente. Questo concetto è stato molto importante per lo sviluppo dell’opera, sia perché il cinema per me è quotidiano nutrimento, sia perché spesso è fonte di congruenze talmente oggettive da non distinguere più la finzione dalla realtà.

TC: Parlami della tecnica frutto di molti anni di ricerca a cui accenni. Come hai lavorato questi pannelli e come hai sviluppato la tua storia sui pannelli stessi?
SCC: Dalla fotografia come punto di partenza, negli anni ho sviluppato varie tecniche di trasferimento. Nel 2015 ho brevettato il fireprinting® su scala nazionale eliminando completamente l’utilizzo di smalti e decalcomanie. Un anno fa è nata questa nuova fase di sperimentazione, nella quale l’impressione dell’immagine avviene in maniera diretta, che ho chiamato “stampa monocromatica su grés”. Preparo un supporto molto materico dove trasferisco l’immagine a crudo successivamente, attraverso l’utilizzo di vari ossidi, intervengo in maniera pittorica straniandola ulteriormente . L’immagine si fissa definitivamente in monocottura ad alta temperatura. Nel caso di Eye Verbal Motor, ho stabilito un inizio e una fine reiterando lo stesso scatto, a creare un racconto. In alcune lastre ho enfatizzato i tratti, in altre attraverso il colore ho cancellato gli stessi, creando delle maschere, travestimenti su travestimenti a mutare la posa della realtà.
Come ti dicevo bado molto ai particolari, in questo caso ai numeri: il 1974 di cui ti parlavo, ad esempio; tento di circondarmi di un’armonia fatta di coincidenze e dettagli nascosti tra le tracce della quotidianità.
In Eye Verbal Motor, undici pezzi raccontano un respiro, il numero undici è quello della mia data di nascita ed è un numero primo, divisibile solamente per uno e per se stesso. L’ultimo pezzo, il dodicesimo, rappresenta il volto soffocato da un respiro che termina, completamente avvolto dalla mancanza di vita, un finale informale, avulso da ogni tipo di riferimento con la realtà.

TC: Puoi spiegare meglio in cosa consiste la tecnica del fireprinting® e quella in cui l’immagine avviene impressa in maniera diretta, che tu chiami “stampa monocromatica su grés”?
SCC: Sono entrambi due trasferimenti diretti di immagine su terra che si differenziano nella temperatura di cottura e nella metodologia di trasferimento. Il colore del fireprinting® tende al rosso mattone mentre nella stampa monocromatica uso prevalentemente ossido nero, ma alcune volte anche rosso o cobalto che applico manualmente. Queste tecniche rendono i pezzi unici; le lavorazioni manuali fanno sì che ogni pezzo sia irripetibile, non esistono multipli anche dello stesso scatto.

“Eye Verbal Motor”, 2019. Lastra cruda.

 

TC: Come mai hai fatto della ceramica il tuo materiale d’elezione? Non credi che, pur essendo utilizzata sempre più spesso, il mondo dell’arte contemporanea conservi ancora molti pregiudizi nei confronti della ceramica? 
SCC: Ho iniziato a lavorarla mentre mi stavo diplomando all’Accademia. Da ragazzina respirandola l’ho sempre tenuta a distanza, temendo di rimanerne assuefatta. È diventata il mio mezzo”, me ne sono innamorata cercando di decontestualizzarla. La sfida a livello tecnico era dissociarmi completamente dall’idea di un medium legato all’artigianato, studiandone le sue peculiarità nascoste.
Di solito le persone, quando si avvicinano ai miei pezzi, non capiscono immediatamente che si tratta di ceramica; il fireprinting®, ad esempio, è stato associato curiosamente al sughero. Per questo motivo la sperimentazione tecnologica è stata fondamentale, soprattutto perché ho stratificato il mio lavoro fondendo la ceramica con la fotografia, il video, le suggestioni sonore, unendo diversi linguaggi della contemporaneità.
Mi hai fatto una domanda molto importante e sono felice di poter dire che oggi la ceramica è sempre più presente nell’arte contemporanea. In fiera, ad esempio, negli ultimi anni mi è capitato spesso di vedere artisti che come me la usano e galleristi che osano proporla. Inizialmente, ho avuto paura che questo strumento costituisse una pregiudiziale, ma lavorando ho capito che il concetto era completamente rovesciato: fermo restando che la materia è solo un tramite per esprimere concetti, questa in particolare assume un importante ruolo protagonista, forse proprio perché non è la più “gettonata”, di lei ci si accorge, rimane impressa, come ogni cosa non consueta. Concludendo, affermo che la ceramica è un mezzo potentissimo e sta vivendo un momento di incredibile rinascita.

TC: Raccontami di te ragazzina che respiravi l’argilla, provieni da una famiglia di ceramisti?
SCC: Sono nata a Genova, ma mio padre vendette casa perché voleva che crescessi in un paese piccolo e di mare. Scommise tutto, vivemmo in tre una stanza ammobiliata per i primi anni, mentre lui avviava un’attività commerciale che era il suo sogno e la sua passione. Arrivai ad Albisola a quattro anni, nel 1979; ho pochissimi ricordi, la maggior parte sono legati a una vita all’aperto, sono cresciuta ai giardinetti di Albisola Superiore, “senza orari né bandiere”. I miei genitori erano molto impegnati e io avevo sempre la matita in mano, disegnavo ovunque, senza sosta, in negozio da mio padre sugli scatoloni o dove capitava. Mio padre insisteva, voleva facessi la decoratrice “da grande”, ricordo una sua frase e ogni tanto con lui scherzo su questo: “Siamo nel paese della ceramica, perché non dipingi da grande? Il bianco-blu! Sarebbe molto bello sai”. Io, un po’ per carattere, un po’ per mettermi in costante contraddizione, non volevo e insistevo su altre strade; con il senno di poi mi colpisce molto il ricordo dell’insistenza profetica di mio padre. Fatto sta che durante l’estate seguivo i corsi di decorazione alla Scuola di Ceramica di Albisola per iniziare a imparare gli stili e al contempo andavo da ceramisti o bravissimi decoratori, li aiutavo nei lavori di bottega, e loro in cambio sopportavano me e i miei esperimenti su maiolica; di questo periodo ho un bellissimo ricordo soprattutto legato a Bruno Tedesi, tanto che, quando è mancato, il figlio mi diede il suo porta pennelli. L’idea di mio padre era non farmi stare ferma in estate, una sorta di lavoro o un impegno dovevo averlo. Dopo le medie la strada si rivelò obbligata: Liceo Artistico. Poi un folle anno di Lettere, mentre seguivo da uditrice i corsi all’Accademia Ligustica di Belle Arti dove mi iscrissi l’anno successivo. Contemporaneamente frequentavo il Corso della Regione per Ceramista Designer in Grès.
Quindi, no, non provengo da una famiglia di ceramisti, ma da un padre e una madre molto lontani da quel mondo, ma che hanno saputo trasmettermi una grande concretezza, essenziale per emergere in qualsiasi campo.

TC: Fino ad ora abbiamo parlato del tuo lavoro più recente. Vuoi parlare anche del tuo percorso, di come ti pare che il tuo lavoro si sia evoluto negli anni? E magari anche dei lavori che consideri più importanti per te, per la tua ricerca.
SCC: A Gennaio ho a calendario una mostra importante, sarà la prima mostra dell’anno alla Nuova Galleria Morone; fa parte di una serie di eventi promossi e patrocinati dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano con lo scopo di creare un palinsesto legato dell’universo femminile. In questa personale saranno presenti pezzi molto lontani dalla mia ricerca attuale affiancati a lavori recenti.
La particolarità che spesso è stata riscontrata parlando del mio lavoro è l’incessante ricerca: ho prodotto molto in relativamente pochi anni. Ogni volta che ho un appuntamento, lavoro a un progetto nuovo. Non sono mai stata in grado di esporre lavori che sentivo superati. Ciò appartiene al lato autobiografico della mia ricerca che cambia con me, ma credo sia figlio anche del fatto di non essere mai pienamente soddisfatta, di voler vedere un oltre che magari non vedrò mai. Tutti i lavori sono importanti per me, ma ho un grande senso autocritico, quasi feroce nei confronti di ciò che faccio; sono il più severo giudice di me stessa.
Celeste è un lavoro al quale sono molto legata, realizzato anche su vetrini citologici, ma anche Interno 8 La fleuer coupée il “mio” Premio Faenza. Ogni tanto lo vado a trovare al MIC, mi camuffo da visitatrice. È stato innegabilmente uno dei momenti più importanti della mia vita, e ne sento con orgoglio il peso e la responsabilità, in senso positivo e propositivo.
Devo dirti che alcuni video fanno parte ancora oggi del mio quotidiano, mi tornano alla mente mentre lavoro, come Only flowers no good deeds, il racconto del viaggio di una videocapsula all’interno del mio stomaco, oppure My July, che ha vinto il Premio Presidente della Repubblica, ottenuto un’edizione prima del Premio Faenza; My July è la cronaca di un brutto incidente stradale, ma che si è rivelato “utile” : prima che mi cucissero, feci avvertire un fotografo per ritrarre il mio viso tumefatto. Sono inoltre particolarmente legata a Il pasto bianco, opera pubblica collocata nella storica Biblioteca Classense di Ravenna, un lavoro molto grande che ha rappresentato per me una conferma importante ed è servito a darmi una sicurezza a livello umano della quale spesso sento il bisogno. Mi piacerebbe un giorno parlarti anche di Bless this house, una serie di undici video, ma è impossibile raccontare tutto. Ogni lavoro è figlio di un cambio vita, magari minimo, che diventa poi sconvolgente, assume toni apocalittici, come ad esempio Just lily, la stanza creata per il Museo di Villa Croce a Genova. Quest’opera ora è proprietà della società di comunicazione HDRA’ di Roma in quanto ha vinto una mostra-concorso curata da Valentina Ciarallo dove a votare sono stati i dipendenti della ditta. Cucito site specific per la sala riunioni, è vissuto durante i brainstorming creativi dell’azienda.

“INTERNO 8 – La fleur coupée”, 2015

 

 

TC: Usi parole forti, sconvolgente e apocalittico, descrivendo Just Lily. Puoi spiegarmi perché?
SCC: È vero, come sconvolgente, forte e apocalittica sa essere la quotidianità. Il lavoro è nato constatando fotograficamente ogni dettaglio di una casa che dovevo lasciare Interno 8. Ero in affitto in un appartamento all’ultimo piano di un palazzo anni Settanta, molto connotato, un blocco di cemento dal quale però si intravedeva il mare. La casa era piuttosto obsoleta, aveva una carta da parati ovunque che mi avvolgeva con disegni floreali tipici del periodo di costruzione. L’arredamento era un miscuglio di cose riservate ai bagnanti, come spesso accade nelle seconde case della Riviera. In pochi anni ho fatto cinque traslochi. Avevo un cantiere difficile da finire che sarebbe poi diventato casa mia; nel frattempo, per via di mille complicazioni mi sono adattata a vivere dove trovavo, traslocando se necessario in base ai cambi degli affitti che in estate triplicavano. Non avevo mai lasciato in nessuna casa un pezzo di me come accadde invece in Interno 8, In quella casa dominavano mobili pesanti, souvenir provenienti da viaggi compiuti da altri, un piccolo bagno con una vasca lunga (che sarebbe poi diventata teatro di una mia opera, come il resto della casa), piastrelle marrone chiaro con delicati fiori dipinti, una sala con un tavolo e un vaso al centro con dei fiori finti (che scoprii poi estensibile e diventò la mia scrivania a tutti gli effetti), una cucina con delle tendine che mi ricordavano l’infanzia, erano simili a quelle scorrevoli che da bambina chiudevano la parte inferiore del lavandino di casa, una camera matrimoniale scarna rispetto al resto della casa con un armadio strano e una cassettiera in formica scura. Questi dettagli possono sembrare inutili da raccontare ma sono fondamentali per capire Just lily. Insomma, una casa a tutti gli effetti ferma nel tempo. Non avevo idea di quanto mi avrebbe ospitato, ma sapevo di non poter né voler toccare nulla; dovevamo “stare insieme” un bel po’, tanto valeva accettarci come eravamo. Sono rimasta lì quasi cinque anni. Durante quel periodo a tratti ho avuto una quotidianità condivisa, al punto da sentirmi quasi incasellata in una realtà definita. In casa lavoravo, è nato MAI HOME, il concept è nel titolo. Sentivo il peso dell’inadeguatezza di una quotidianità fallimentare, per me impossibile da mettere in atto; feci “recitare” parti della casa dove cercavo, senza risultato, di integrarmi, la cucina in particolare. Presero vita scenari surreali nei quali la mia figura decapitata, posava come un’inutile statua/decoro, vestita in abiti ora distinti, ora trascurati, insieme agli attori principali: il calorifero macchiato, il rubinetto, i fuochi per cucinare, il tavolo, la tapparella e altri oggetti, affinché lo spettatore fosse autorizzato a entrare in casa, dalla mia porta e seguire un suo percorso tra le cose, mentre io recitavo la commedia di una vita che non mi apparteneva.
Nel 2016 la cucina divenne il set di Ring around the rosie; il titolo anche in questo caso è molto importante, deriva dalla filastrocca inglese parente del nostro “Girotondo”. In Inghilterra, questo gioco da bambini, descriveva il decorso della peste del 1665 che spopolò Londra. “Ring – a ring – a – rosies”: la collana di rose erano i bubboni che comparivano prima attorno al collo, attaccando i linfonodi, “A pocket full of posies” erano le erbe odorose di cui ci si riempivano le tasche, credendo che certi aromi proteggessero dal contagio purificando l’aria, “A tissue, a tissue”, era lo starnuto che indicava che la persona era stata contagiata, “We all fall down”, tutti giù per terra: la morte che colpiva, repentina, in seguito a un movimento qualunque del malato.
Cercavo un titolo alla mia opera e questa storia mi scosse e mi attrasse moltissimo, mi fece riflettere su come la vita ti avvinghi, colpendoti, lasciandoti a terra senza fiato giocando con te incessantemente, mascherata da un gioco seducente e inevitabile del quale tutti in tondo facciamo parte, nel quale tutti giriamo e rigiriamo con un “ruolo”. Nacque il mio girotondo tra video e fotografia: in cucina constatai la folle corsa su me stessa, recitando un mantra che scrissi e che divenne il sonoro dell’opera. Era un periodo buio, durante il quale non uscivo di casa; indossai un abito elegante e calzai scarpe con tacchi molto alti, come dovessi andare a una festa, iniziai a girare all’interno della precisa geometria di una piastrella, in un girotondo infinito, delineando la condizione dello stare all’interno dello spazio; ruotai su me stessa fino alla nausea, ebbe la meglio il capo sovrastato dai giri del corpo, il video e i fotogrammi cessarono a malessere fisico avvenuto. In seguito nacque se io fossi LUCIDA, un pannello scultura alto tre metri e mezzo, al culmine del quale proiettai un video girato in sala. Interno 8 divenne un teatro, spostai il divano e ogni ingombro, installai una telecamera a riprendere un dialogo con me stessa ogni giorno, rientrando dall’ospedale. La camera fissa mi riprendeva alternando i piani di messa a fuoco a celare il mio viso imbarazzato e urtato dalle mie parole. Raccontavo con distacco ciò che mi stava accadendo, e più in generale con rabbia infierivo sull’essere donna nella società degli stereotipi. La ripresa era una pratica quotidiana, un diario doloroso e minuzioso.

“Se io fossi LUCIDA”, 2014

Just lily, del quale ti parlerò a breve, è la dimora di tutto ciò che ti sto descrivendo.
Un mattina decisi di notificare il gelo che avevo dentro e che andava crescendo giorno dopo giorno. Aprii il piccolo freezer di un vecchio frigo con la porta tempestata di rose secche appese a testa in giù insieme ad altre tracce di ricordi. Mi interessava notificare l’organicità del freddo, minuto dopo minuto, ora dopo ora. Una serie di scatti raccolsero il cambiamento della forma di quel contenitore che non usavo. Con il passare del tempo il ghiaccio assunse una forma “calda” e lo spazio da vuoto si fece pieno, colmo di bianco. Il ghiaccio riempì la mia realtà congelata. Non ero interessata al fenomeno fisico, ma a evidenziare attraverso un oggetto di uso comune, violandone la funzione, come l’assenza di umanità possa essere un fenomeno da osservare con perizia, vederlo crescere e modificarsi con il passare del tempo fino a sentirlo come inarrestabile e constatarne il punto di non ritorno. Innocent è anche la metafora di come un’azione anomala (a significare un sentimento negativo) se reiterata nel tempo si sostituisca silente alla realtà, diventando essa stessa la “normalità”; così come la prassi nel subire ingiustizie (personali o universali) possa diventare una folle e inconscia forma di accettazione. Il ghiaccio poteva smettere di formarsi solo “staccando la spina”.
Una danza macabra si è svolta tra le pareti domestiche di Interno 8: Shot dance. Attraverso l’uso di una camera fissa e un’inquadratura selettiva dal fuoco volutamente incostante, il video si basa su un’azione centrifuga, reiterata, nella quale la tensione delle mie mani dissanguano un frutto dalla sua polpa. La mancata evidenza dell’identità del frutto suggerisce la presenza/assenza di una parte organica umana che viene schiacciata, con premurosa aggressività. Ricordo la mia attenzione nel tenere tra le mani la polpa con cura, affinché non fuoriuscisse e andasse perduta dal campo visivo, essa si contrapponeva all’accanimento sul “frutto” attraverso la compressione costante, compulsiva e insistente del mio quotidiano overkilling,. La forza delle mie mani inesorabilmente fece prevalere un’inconscia volontà di distruzione come unica strategia di salvezza, un concetto che mi perseguita.
Una notte in quella casa, a un certo punto della mia vita, cadde metaforicamente un asteroide infuocato, annientando ogni singola cosa conosciuta e amata. Nacque il video 5 Breve e freddo, l’unico programma che usavo della logora lavatrice in bagno, un elettrodomestico che mescolava le carte a guarnire in modo sadico una vita in comune. Un dialogo a senso unico, un vicolo di un paese senza uscita raccontava di un male assordante come risposta. Era una forma di ribellione accanirsi su un solo programma, per paura di “rovinare”, di sbagliare, di non essere in grado o di non essere abbastanza pulita. Simbolicamente tutto prese fuoco, ogni singola cosa. Questa “collisione” fu rappresentata da un’alcova vissuta e distrutta, connotata da un rosso fiammeggiante, centrifugata, sconvolta, annientata in un’intimità dalle atmosfere teatrali, che ridusse la vita a una recita della domenica, interpretata da attori dilettanti. Non rimase più nulla, forse i ricordi.
Interno 8 la fleuer coupée nacque nel bagno di casa. Per mesi, vestita con un abito fiorato fuori moda, con bottoni neri sul petto e sulle maniche, costantemente decapitata, mi immergevo nella vasca da bagno. Infinite constatazioni fotografiche fissavano il corpo ormai impermeabile al freddo, che si muoveva lentamente in uno spazio circoscritto. Immersa nella vasca scarna, mi abbandonai all’acqua. Il bagno divenne così quotidiano battesimo in nome di una rinascita desiderata, ma anche travagliata, non riuscendo a cancellare la veste del passato. La vasca divenne la mia culla dove perdevo il contatto con il reale, complice la temperatura dell’acqua e le tante ore di lavoro. Osservavo come le mani e le gambe divenivano livide con il passare del tempo, come la pelle si raggrinziva accompagnata dall’intorbidirsi dell’acqua con la lieve perdita delle tinte cangianti dei fiori stampigliati sull’abito, interrogando il mio corpo sui compiti che nella vita non aveva svolto; attraverso l’acqua, tra i fiori, le mie mani, i miei piedi, il rubinetto, il tubo della doccia, si creò una sorta di sinfonia alla quale mi ero abituata e alla quale non sapevo rinunciare. Il messaggio intendeva trasmettere un puzzle impossibile da ricostruire, l’immagine di una donna fatta a pezzi, sfiorando l’astrattismo, dai toni atemporali, quasi retrò, così come certe forme di nostalgia rendono la realtà patologica. Era difficile mettere la parola fine a questa serie. Dopo mesi di lavoro avevo realizzato un’esuberanza di scatti, ma continuare la sequenza era faticoso quanto vitale. I fiori recisi del mio abito galleggiavano sull’acqua, le constatazioni riportavano esattamente il mio stato d’animo ogni giorno; mi chiesi spesso come fosse possibile, dato che il volto non risultava mai inquadrato. Non era importante il mio viso; no, non è del tutto vero, non riuscivo proprio ad accettarlo, come non accettavo i pensieri che ruotavano pazzi nella mia testa.
Completai l’opera scrivendo e recitando un mantra che divenne poi la suggestione sonora dell’opera dal titolo:

Io abortirò il tuo viso
(…)
su un tappeto di pietre
sulla fiamma meticolosa
su un livido viola
io abortirò il tuo viso
sui bottoni della camicia
sulla chiave del portone
su quel tratto di strada


io abortirò il tuo viso (…)

Il risultato fu un pannello molto grande, due metri per due metri, composto da circa duemila tessere in fireprinting®; il risultato fu vincere il 59° Premio Faenza come prima donna italiana dalla storia del concorso (1938). Avevo ragione a non voler andar via da quella culla, oscillando diventò mia complice.

Finalmente rispondo alla tua domanda, dopo questa lunga premessa.
Just lily nasce da un dolore infinito: dovevo abbandonare quella casa, lasciare ogni cosa che ti ho raccontato, dimenticare quel tratto di vita. Quando il tuo studio è la tua casa non esiste più un limite definito tra il corpo e l’ambiente circostante. Sapevo che con quel trasloco si chiudeva definitivamente un capitolo importante della mia vita, quel luogo era stato teatro di troppi scenari, i muri mi venivano addosso, non riuscivo a mettere negli scatoloni le cose accumulate negli anni. Mi circondo maniacalmente di ricordi, dettagli, e trasformo ogni luogo che vivo in un horror vaqui senza rendermene conto, immagina in cinque anni. Volevo buttare via tutto e in parte lo feci, buttai via i ricordi che non volevo portare con me. Continuavo a rimandare il trasloco, di pochi giorni, poi di qualche settimana, poi di mesi, fino a che mi resi conto, che la violenza con la quale mi accanivo nel restare era diventata indomabile e mi gettò in un incubo terribile, facendomi perdere di vista ogni cosa e dimenticare ogni dato di realtà. L’unica soluzione possibile era portare quella casa e tutti i suoi maledetti feticci con me. Li fotografai minuziosamente, tutti, mi introdussi in ogni angolo della casa e racchiusi la realtà in schede fotografiche: post-it con lontani segni d’affetto, le geometrie del lampadario, la foto di mia nonna della quale porto il nome, le penne sparse sulla scrivania, i film abbandonati a terra, la polvere tra le cose, gli abiti accumulati in una piccola stanza che fungeva da armadio, il rubinetto arrugginito del bagno, i dettagli delle piastrelle, tutte le mie collane finte, i pochi gioielli simbolo di un amore, le lettere, le pieghe del divano, le coperte, la Madonnina che mi proteggeva sopra il letto, i particolari di un poggiolo sempre aperto. Notificai tutto, in modo maniacale, ero ossessionata dal dimenticare qualcosa, dal non ricordarlo più “un domani”, da non saper riconoscere più quel luogo e dunque me stessa. Lavorai incessantemente nel disordine, del quale anche io facevo parte, lavorai anche la notte. Tra una sessione e l’altra scaricavo sul pc le foto per accertarmi che ci fosse tutto: i manifesti delle mostre, le scarpe, le fotografie dei momenti, le rose all’ingiù. Ma qualcosa non tornava, mi resi conto che mancavano dei dettagli, che alcuni ricordi erano spariti; li cercai su uno stupido social, tra i ricordi “condivisi”, li portai via di lì, chiedendomi anche il perché avessi avuto la necessità di condividere immagini così personali, ma ne riappropriai e li inserii nella cartella Just lily: essa conteneva la mia vita tra le mura di Interno 8 e tutto ciò che ruotò intorno a me in quegli anni.
Il nome deriva dalla mia passione per i gigli, lily è un giglio, è “appena un giglio”. Con la loro forma i gigli hanno la capacità di entrare prepotenti nello spazio, a dispetto della loro presunta fragilità e purezza, con il loro profumo alienante invadono gli ambienti dello stare, con le indelebili macchie del loro polline marchiano la realtà. In Just lily i gigli sono ovunque nascosti e silenti tra le cose.
Questo fiore è però caratterizzato da una vita, intensa, profumata e piuttosto breve, intrisa di precarietà.
“Mi potresti donare dei gigli?”. I doni non si dovrebbero chiedere.
Just lily è stato definito da Alessandra Gagliano Candela, che ne ha curato la prima installazione, “Una Wunderkammer la cui chiave di accesso è l’artista stessa. Trovo questa definizione molto pertinente.
Le immagini, trasposte su grès con la tecnica del fireprinting®, hanno dato vita a una stanza di trentatré metri quadrati circa, una quadreria immensa composta da cinque diversi formati di lastre, a definire una folle e confusa geometria. Chi entrava nella stanza, veniva accolto da un mantra da me scritto e recitato in inglese da una voce maschile dal titolo Can you please stop talking?” (nel testo elencavo brani di quotidianità invitando al silenzio). La sensazione dei visitatori era un iniziale smarrimento, alcuni si ritrovavano nei molteplici dati di realtà finendo per perdersi nei contorni sfumati di quella che non era più la mia vita.
Sono molto contenta che Just lily abbia vinto quel premio, non solo per l’innegabile soddisfazione professionale essendo stato votato quasi all’unanimità, ma anche perché non lo vedrò più se non per volontà, andandolo a trovare a Palazzo Fiano a Roma. Pensa che fatale e ironica conclusione: il luogo che non volevo lasciare ha lasciato me.

“Just lily”, 2017

TC:  Ovvio che ora ti chiedo di parlami di Bless this house.
SCC: Bless this house è stato il mio nuovo inizio e la chiave per chiudere definitivamente quell’appartamento. Sono entrata qui, in casa mia, come un’aliena, gli spazi non mi parlavano, i mobili che questa volta avevo scelto erano fin troppo per me, una delle ragioni che mi legavano a Interno 8 era che quella casa un po’ lacerata fungeva da specchio, era simile a me.
Sono passati molti mesi prima che riuscissi a prendere confidenza con i nuovi ambienti, tra l’altro frutto di tanti anni di lavori, di tormenti e di sacrifici; un posto che mi ero guadagnata e sul quale avevo fatto scelte precise: una grande scrivania per lavorare, una carta da parati insolita che si staccava completamente dalla vecchia e rispecchiava i miei gusti, una cucina anonima, perché anonimo è il mio rapporto con il cibo, una grande libreria che finalmente poteva contenere tutto ciò che prima era sparso qua e là, e soprattutto una zona dedicata al cinema: la mia passione, un mobile per contenere tutti i miei film, ma essenzialmente una grande parete bianca su cui proiettare, ogni giorno. Questo accadeva anche nell’altra casa, ma con più difficoltà, proiettavo su un telo attaccato alla carta da parati con delle puntine. Nei mesi avevo scelto ogni dettaglio, con grande cura. Ma l’ipotesi di trasferirmi era sempre remota e distante. In questa casa, mi sono circondata di altre vite: ogni luce proviene da un negozio, che ora ha chiuso, e che trattava cose antiche, non di grande valore, ma con una storia e pregne di oro, un po’ barocche, uno stile che amo molto. Ho dorato anche altri oggetti, un inginocchiatoio che mi regalarono in Spagna molti anni fa, un piccolo divanetto portatelefono dei miei genitori e, dietro al letto, ho appeso un arazzo preso in un mercatino che ho restaurato nel quale alcune dame in abiti settecenteschi chiacchierano su un prato, mentre un goffo cavaliere si avvicina; alcuni vecchi specchi dorati ma con l’argentatura compromessa che non ho restaurato affinché il riflesso fosse straniante. In questa casa non c’è nessuna diavoleria hitech, ma è composta da una commistione di stili diversi e stati d’animo, è “umorale” ecco. Una cara amica mi ha aiutato a “trovare la quadra”, mi è stata accanto nella chiusura del cantiere, come fosse casa sua. Passarono, giorni, mesi, ma io mi sentivo un ospite a casa mia; ero furente con me stessa, temevo di non riuscire più a lavorare, mi ero portata dalla vecchia casa un pezzo di tappezzeria, un furto di poco conto, la strappai da dietro il letto e la incorniciai. Era il mio unico punto di riferimento con il reale. Lo appesi in sala affinché seguisse ogni mio movimento e riuscisse a donarmi la realtà passata. Non capivo cosa stesse succedendo: non riuscivo a dormire; soprattutto non riuscivo a sentire quel luogo mio e di conseguenza ogni cosa era congelata. E’ passato quasi un anno perché iniziassi a sentirmi accolta. Sono piombata nuovamente in un incubo. L’unica cosa che mi poteva salvare era, come sempre, il lavoro. Dovevo “usarla” altrimenti lei mi avrebbe sepolto, sarei diventata schiava delle sue macerie, mi avrebbe schiacciato sgretolando ogni cosa.
Nacque allora ROOM 60, anche in questo caso il titolo è stato fondamentale, mi dissi “non sono a casa, sono in un HOTEL” (titolo di un video che nacque poco dopo), il civico era il sessanta, e io ero in una stanza. Non ero affatto completa. ROOM 60 è nuovamente figlio di un dialogo con me stessa, questa volta allo specchio; io che non avevo mai usato il mio volto, se non in sovraesposizione bruciandone i tratti. Gli scatti mi mettevano al cospetto di “viaggi” al ritorno da un luogo amaro. Il frutto delle settimane di lavoro, post produzione e trasposizione in ceramica fu una grande installazione, esposta in una personale dal titolo ROOM 60 al Museo Carlo Zauli di Faenza. Le lastre, multiformato, con una me trasfigurata, dialogavano con le opere del Maestro. Nonostante la loro astrazione, erano molto “presenti”, le appoggiai meticolosamente su tre grandi mensole, erano moltissime, lavorai fino a tarda notte per sistemare le mie foto-congedo, ex voto, poste in religioso silenzio di fronte alle sculture del grande artista e di una parte di me che non esisteva più e della quale mi dovevo liberare. Ero debole quell’estate, ma sapevo che avrei ritrovato ogni dettaglio di forza a inaugurazione avvenuta, se fosse andata come speravo ovviamente.
La sfida non fu facile, il Museo era avvolto dalla possente figura di Carlo Zauli ma il risultato fu una delle mostre più belle che ricordi di aver fatto. Te ne parlo perché nella sala all’ultimo piano, dove al centro troneggia la grande Ruota Strappata, installai Bless this house; al piano terra, nella sala dei forni, su un trentadue pollici, veniva riprodotto in loop HOTEL. Il Museo, in particolare Matteo Zauli, si fidò e seguì il progetto, il punto era entrare con forza, dunque sarei sparita ma con grande rispetto.
Ogni corpo, a mio avviso, rivela una verità che prevale sulle altre. Il mio corpo manifesta un’unica certezza: sa scavalcare le ore, la fatica, si trasforma in una sorta di stele robusta e inattaccabile ogni volta che lavoro, ogni volta che ho un progetto da consegnare. Non sento più la fame, la sete, il trascorrere del tempo, il freddo o il caldo, perdo quasi di “realtà”. Ti rivelo un dato curioso, questa strana sensazione la sto provando anche durante questa intervista. Bless this house, Benedici questa casa, titolo ferocemente simbolico. Ho pensato molto a come rappresentare lo stato d’animo che stavo vivendo, a come smettere di demonizzare i miei fantasmi, a come benedirli invece, a come riuscire a stare insieme a loro tra le pareti di ROOM 60, per poi farli uscire dalla porta piano piano ma definitivamente. Dovevo appropriami di questo luogo distruggendo Interno 8.
Cercai in rete filmati di demolizioni controllate, ne trovai infiniti; fui ossessionata per settimane da quelle immagini, rappresentate talvolta in maniera quasi scientifica, generalmente di brevissima durata. Ci lavorai molto, mi appassionai, lessi articoli sull’argomento, sulle tecnologie utilizzate, mi mossi virtualmente tra dinamite, altri tipi di esplosivi, tagli delle strutture portanti e a tutto ciò che aveva come fine la “distruzione” volontaria di edifici di grandi dimensioni e palazzi obsoleti. Questi collassi strutturali divennero una fissazione, passavo giorni a vederli, erano diventati un assillo. Mi venne in mente di estrapolarli, modificarli, cambiandogli le fattezze: tagliai le inquadrature, li rallentai in maniera surreale, decidendo il tempo necessario per “morire”, subito dopo li facevo “rinascere” in un moto perpetuo, senza inizio né fine. Virai tutto al rosso, appiattendone la prospettiva. Il rosso, che io vedo come un colore neutro, in questo caso enfatizzava anche il sonoro: una canzone alla quale sono particolarmente legata, elaborata accuratamente e riprodotta al contrario, diventando una sorta di musica elettronica dalle sonorità contrastanti. Il giorno dell’opening, sette video esposti degli undici realizzati urlarono tra le pareti del Museo, ma non ebbi la minima percezione disturbassero la realtà circostante, né i visitatori presenti. La sala ebbe molto successo.
Bless this house racconta di come ci si possa annichilire al rallentatore, implodere lentamente, sotto lo sguardo degli altri che forse percepiscono il dolore, ma non intendono intervenire; così come i palazzi accanto a quello “designato”, attenti assistono al massacro che genera però un’apocalisse alla quali tutti siamo predestinati. Un’apocalisse personale si fa universale, radendo al suolo le certezze, eliminando i confini, per far spazio a una terra ignota, un rito che ha come scopo la “rinascita” in luogo/mondo nuovo. Quest’opera ha costruito la mia attuale “casa”, l’ha benedetta, mi ha fatto non solo accettare ma amare ogni centimetro dello spazio in cui vivo e lavoro, attraverso grandi esplosioni, forti vibrazioni e onde sonore che non avevo mai udito. In senso più universale il tema è quello della costruzione, consapevolezza, distruzione, ciclicità.
Dopo la mostra, rientrai a casa tolsi il quadro con la vecchia tappezzeria che avevo strappato da Interno 8. Al suo posto ora c’è un dono prezioso: una scultura dorata, organica a forma di cuore umano.

“Bless this house”, 2018

 

TC: Parlami della gioia.
SCC: Te ne ho parlato in tutta l’intervista. 

 

Foto:

1: Silvia Celeste Calcagno, Eye Verbal Motor, 2019. Stampa fotografica su ceramica con interventi pittorici e ossidi in trasferimento; 12 lastre (ciascuna 36 x 24,5 x 1,8 cm). Installazione al Museo della Ceramica di Savona.
2,3,4,5: Silvia Celeste Calcagno, Eye Verbal Motor, 2019. Stampa fotografica su ceramica con interventi pittorici e ossidi in trasferimento; 12 lastre (ciascuna 36 x 24,5 x 1,8 cm).
6: Silvia Celeste Calcagno, Eye Verbal Motor, 2019. Lastra cruda.
7: Silvia Celeste Calcagno, INTERNO 8 – La fleur coupée, 2015. Fireprinting®, 200 × 200 cm. Opera vincitrice al 59° Premio Faenza.
8: Silvia Celeste Calcagno, Only flowers no good deeds, 2010. Video.
9: Silvia Celeste Calcagno, My July, 2013. Fotografia su ceramica e videoproiezione, 700 × 40 cm. Targa del Presidente della Repubblica, 57° Concorso Internazionale della Ceramica d’arte Contemporanea, Premio Faenza.
10: Silvia Celeste Calcagno, Se io fossi LUCIDA, 2014. Fotografia su ceramica e videoproiezione, 350 x 150 x 5 cm.
11: Silvia Celeste Calcagno, Just lily, 2017. Fireprinting®, installazione di dimensioni variabili composta da cinque formati (40×30 cm – 30×20 cm – 20×15 cm – 15×10 cm – 6×4 cm). Opera permanente, HDRA’, Palazzo Fiano, Roma. 
12: Silvia Celeste Calcagno, Bless this house, 2018. Video

 

Orari

venerdì 9.30-13; 15.30-18.30
sabato 9.30-13; 15.30-18.30
domenica 9.30-17
lunedì 9.30-13

 

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