Museo della Ceramica di Savona
A cura di Livia Savorelli
Alessio Cotena: Il colore blu è il filo conduttore che lega i lavori presentati in questa esposizione al Museo della Ceramica. Colore simbolo per la storia della ceramica ligure, quale significato assume nella tua ricerca artistica?
Giovanni Gaggia: Il significato del colore blu in questo progetto espositivo si è andato via via definendo, fino a raggiungere la sua massima espressione poetica nel titolo della mostra “HO VISTO UN’ALBA BLU”. Ci tenevo che il cammino fosse evidentemente coerente e che non ci fossero vie di fuga. Spesso, il mio essere eclettico mi porta a usare tecniche differenti che rischiano di far perdere l’attenzione e qui non deve accadere. Il colore scorre nelle sale del Museo gettando le basi nella ceramica tradizionale ligure per divenire mediterraneo, con tutta la simbologia e il valore politico che sono contenuti in esso. Quando il cielo cambia colore, dal blu scuro in pochi istanti si arriva al ciano grazie alle dorature del sole. È un colore che ci permette di viaggiare in uno stato unico, a metà tra il cielo e il mare, di toccare così l’universalità e l’essenza della vita. È uno sguardo che non si interrompe mai.
AC: L’opera “Cuore a Dio, mani al lavoro” presenta oltre 125 cuori in ceramica frutto di un lavoro corale. Ci vuoi raccontare come nasce l’idea di questo progetto e in che modo si è legato al nostro territorio?
GG: Dalla ceramica, al mare, alla vita. Mi premeva che l’opera fosse realmente partecipata e collettiva, che si comprendesse l’importanza del passaggio dal singolo alla collettività. Con l’intenzione di rendere visibile, attraverso l’opera d’arte, una sorta di comunità ipoteticamente consapevole. 125 calchi di un cuore reale, dipinti di blu e incisi ciascuno da una persona differente. Chiesi ai partecipanti di incidere sulla ceramica ciò che avrebbero voluto per sempre sul proprio cuore. Ci sono disegni, segni, graffi e parole forti, si evince in maniera nitida l’intento politico. Aprite i porti, i nomi dei figli, HIV, cuore – entrata di casa. Messaggi forti che se spostati dal singolo alla collettività acquisiscono un impressionante valore. “Cuore a Dio, mani al lavoro” nasce dalla residenza, su invito dell’Associazione Culturale Arteam, svoltasi all’ostello Le Stuoie adiacente a Casa Benedetta Rossello ad Albissola Marina. Una struttura dove vengono accolte persone con difficoltà abitative. Una famiglia ospite risiede in pianta stabile al suo interno e altre famiglie, a rotazione quotidiana, si impegnano ad aiutare nella gestione ordinaria. Qui si vive insieme: è ben chiara l’importanza delle relazioni. Ci tenevo che questa storia venisse raccontata al di là del muro che divide la struttura dal resto della cittadina. L’opera parte da qui, il titolo è il medesimo della residenza. È il motto di Santa Maria Giuseppa Rossello (Savona 1811)
AC: Il cuore si carica da sempre di molteplici significati, da sede dell’anima a semplice organo anatomico. Nella tua ricerca riveste un ruolo di primo piano, quindi cosa rappresenta per te il cuore?
GG: Mi piace quando le mie stesse domande mi vengono riposte. È ciò che chiedo quando mi viene detto “non so cosa fare”, “non so cosa incidere”. Il cuore anatomico è simbolo del corpo e delle problematiche dell’umano esistere. Ho scelto l’emblematico muscolo come mia icona rappresentativa nei primi anni Duemila, poco dopo aver terminato gli studi accademici. Ho voluto che fosse un cuore anatomico e che si uscisse dall’icona pop. Il cuore iniziale è di maiale. Si iniziò con un taglio su di esso durante una performance nel 2009: tre cuori, tre uomini, tre fili, dal nero all’oro passando per l’argento. Una donna li ricucì e suturò, costruendo metaforicamente la scala alchemica. Da quel momento in poi iniziai a ricamare, quasi sempre con il filo dorato. Da qui gli elementi che costruiscono questa mostra: il cuore, il ricamo.
AC: La tua formazione avviene presso la Scuola del Libro di Urbino. Osservando le tue opere si può vedere come gli elementi che creano un libro si svincolano dalla loro naturale funzione per assumere nuovi significati. Che cos’è per te il segno?
GG: Non amo la narrazione, non mi interessano l’inizio e la fine. Preferisco la circolarità, come nel caso di questo processo espositivo. Pur avendo un’ottimo rapporto con l’editoria, mi piace scardinarne i codici come nel caso del mio ultimo libro “QUELLO CHE DOVEVA ACCADERE”, di cui l’omonima opera video in mostra al Museo della Ceramica chiude il processo. È un libro che libro non è. Un’ opera che si può chiudere o aprire. È di nuovo un prodotto politico per contenuto ed estetica. Il segno è traccia. Quando disegno è sempre un segno sull’altro, sempre su tematiche forti, e l’ultima volta ad esempio, le figure si componevano attorno a tracce ematiche reali. Un disegno lungo e meticoloso, nel quale mi sembrava di tracciare la pelle e l’anima. Ha la medesima importanza del segnare il cuore; sono solchi indelebili sull’esistenza.
AC: I “luoghi”, spazi fisici della relazione, sono un elemento ricorrente nella tua ricerca artistica. Ti hanno portato anche alla creazione di “Casa Sponge” ad Albissola, luogo utopico e rifugio di artisti. Qual è il tuo modo di entrare in relazione con questi spazi? In che modo ti sei rapportato con il territorio della provincia di Savona e che cosa hai “percepito” come artista che viene da un’altra terra?
GG: Spazi interiori e di vita si incastrano andando a costruire un’unica forma. Casa Sponge è la mia casa, aperta all’altro, ormai da più di 13 anni. Mi piace definirla la mia più grande performance. Per raccontare come mi sono rapportato prendo in prestito le parole di Marco Berbaldi, Presidente della Fondazione Diocesana Comunità Servizi: “Giovanni ha fatto una cosa molto semplice, ma per noi molto importante. Ci ha osservato con lo sguardo del “marziano”, quello di chi arriva sulla terra per la prima volta, e ci ha ascoltato. Noi che per lavoro ascoltiamo quotidianamente le persone fragili e affaticate, abbiamo ricevuto il dono di essere accolti e ascoltati da un marziano. Ci ha dato la possibilità di fermarci e riflettere sulla nostra bellezza, quella che non sappiamo raccontare…[…]”.
La relazione con lo spazio è la medesima che si genera con le persone, cambia il senso. Se prima è necessario l’udito, ora è necessaria la vista; entrambi i sensi sono sempre connessi con la pancia, le viscere. Se con la comunità ho utilizzato l’ascolto, con gli spazi ho usato la vista. Ho voluto integrare quanto già presente con l’intruso, il nuovo. Con soluzione di continuità, senza interruzione, tentando di creare un unico vissuto attorno alla ceramica, al blu, alla storia e all’umanità. Il vostro territorio mi ha regalato qualcosa di mai accaduto e straordinario, sono state tante le figure che si sono strette attorno alla mia pratica: persone, istituzioni, scuole, artisti, associazioni di volontariato. Tutti insieme in un’unica opera. Grazie!
Foto di copertina: Marco Isaia