20 Giugno 2018
Lo sguardo umano ha da tempo abbandonato la sua “naturalità”, per avventurarsi in dimensioni visive extra-umane e questo è successo da quando si sono iniziati a costruire apparecchi visivi dotati di lenti, per espandere la visione organica umana. Pensa ai famosi cannocchiali di Galileo e Sarpi, per esempio. Queste dimensioni visive artificiali sono emerse in modo esplicito nel momento in cui dal cannocchiale si è passati alla macchina fotografica e al cinematografo. A quel punto, la visione umana è stata catturata inesorabilmente in un mondo visivo post-ottico e post-umano che ora è preponderante. Perciò, utilizzare delle macchine visive come medium d’espressione –foto, video o film che siano – significa sempre e comunque confrontarsi con una visione non umana, come ho cercato di fare in questo lavoro immaginando la visione della vespa.
In genere, il riferimento implicito della visione extra-umana delle macchine visive è lo “sguardo di Dio”, uno sguardo perfetto, preciso, che vede tutto benissimo e che sta al di sopra di tutto. La visione trasferita sulla macchina tradisce il sogno di poter finalmente uscire dalla soggettività umana per assumere l’”oggettività divina”, di cui la macchina sembra una diretta emanazione.
Il paradosso, però, è che la storia tecnica delle macchine visive passa attraverso forme di visione che appartengono più al mondo animale che a quello divino – che in realtà non conosciamo assolutamente -. E il mio tentativo di mettere in scena lo sguardo delle vespe è in linea con tutta la storia della cine-fotografia.
All’inizio, con le immagini in bianco e nero, o seppia, dipinte a mano in modo inverosimile, la macchina cine-fotografica non ha fatto altro che mostrare a noi umani il mondo così come lo vedono i cani, che hanno una particolare visione bianco-nera-daltonica. Poi, con le riprese aeree, le immagini della macchina rivelano finalmente il mondo dall’alto con la precisione, la prossimità e la definizione che sono proprie degli uccelli in volo e della loro pratica di avvistamento. Oppure, pensa alla visione grandangolare spinta all’estremo, in cui il campo inquadrato si presenta a centottanta gradi e mantiene la definizione anche nelle zone periferiche, che nella visione organica umana restano invece più indefinite e approssimative. Noi siamo riusciti a fare nostra questa visione , ad esempio, attraverso gli spettacoli in multi-proiezione, con la tecnologia IMAX dei parchi a tema. E qui, nei parchi a tema di tipo scientifico o ludico, come Disneyland, il mondo risulta più simile a come lo vedono alcuni pesci e, non a caso, la lente a centottanta gradi si chiama “fish-eye”.
Con la realtà virtuale a trecentosessanta gradi – l’ultimo “traguardo” audiovisivo tagliato dal digitale-, noi umani riusciamo a cogliere lo spazio nello stesso modo in cui lo percepiscono le mosche e in genere tutti gli insetti, anche se con alcune differenze, per fare un altro esempio ancora. Lo spazio assume una forma circolare che non arriva a rendersi visibile tutta insieme, ma in una successione di dettagli incastonati tra loro come in un mosaico. Vedere uno spazio a trecentosessanta gradi tutto insieme, infatti, per noi è impossibile e dobbiamo girare la testa, così quello spazio ci arriva a pezzi e lo ricomponiamo mentalmente mentre ci muoviamo al suo interno…
Forse, quello che mi hanno mostrato, o insegnato, le vespe vasaie è proprio che più le macchine visive esibiscono una visione “perfetta” – come l’alta definizione che ho usato per questo video-, più la visione arretra a stadi visivi che non riguardano la perfezione, ma piuttosto l’anomalia, la stupefazione, il prodigio, in breve l’extra-ordinario. E questo mi fa anche venire in mente il fatto che il cinema, agli esordi, apparteneva proprio al mondo dei baracconi…
Sì, ho cercato in tutto e per tutto di far “volare” la telecamera come vola una vespa. Non so nulla degli insetti sul piano scientifico, ma passo molto tempo fra le piante del mio balcone e osservo di continuo tutti gli animali che le abitano, comprese le vespe. So come volano, come si avvicinano ai loro obiettivi attraverso cerchi concentrici, come si fermano sulle foglie per ripartire in un volo circolare subito dopo, muovendosi sulla zona secondo traiettorie che sembrano un po’ a casaccio, come se fossero indecise, prima di andarsene e ritornare dopo un po’…
Ci ho messo circa un mese per riuscire a ottenere delle simulazioni di volo di vespa che mi soddisfacessero, ho dovuto abituarmi a quel tipo di movimenti. Ho acquistato una telecamera ad alta definizione con un buon “macro”, perché le dimensioni dei nidi sono estremamente ridotte, a misura di vespa. Poi, ho costruito una sorta di day-light studio che ogni giorno smontavo e rimontavo nella mia cucina, l’unico spazio di casa mia dove arriva il sole diretto, nelle ore di punta della giornata, per riuscire a illuminare i nidi in modo naturale. Inizialmente, avevo provato con le lampade, ma l’effetto era troppo freddo per far vedere con evidenza tutte le sfumature del materiale.
Invece, per mettere in scena il volo circolare, ho acquistato un grammofono a valigetta da poter spostare seguendo la luce del sole e ho costruito un set sul giradischi. Più o meno tutti i giorni, per un paio di ore circa, ho fatto la “ginnastica della vespa” con la telecamera. Alla fine, ero costretta a smettere per la fatica di tutti quei movimenti, su cui mi dovevo concentrare profondamente per poterli realizzare. Dovevo anche mettermi gli occhiali da sole per non rimanere abbagliata dai riflessi della luce, ma dopo un po’ gli occhi mi facevano male lo stesso, per tutti i miei tentativi di mettere a fuoco dettagli infinitesimali. Per mia fortuna, questa primavera ha piovuto molto…
L’idea del controllo è intrinseca alla macchina visiva, fa parte della sua logica interna, della sua tecno-logia. La macchina visiva nasce con questo obiettivo implicito – e qui ci sarebbe molto da dire a proposito della razionalità industriale capitalista che porta allo sviluppo delle macchine visive, ma è un altro discorso….
L’obiettivo non “guarda” mai, perché non agisce per diletto o in modo emotivo come facciamo noi, ma funziona per fare ordine, per catalogare: l’obiettivo ispeziona sempre, e questo indipendentemente dalla natura di ciò su cui si posa.
In questo caso particolare, per me era cruciale far emergere la materia di cui sono fatti questi nidi, una materia composita al cui interno convivono elementi diversi: terre di varia origine e colore, pietruzze, minuscoli cristalli, frammenti vegetali e tracce animali. Poi, era fondamentale far vedere anche la geometria di queste architetture, fatta di cerchi concentrici, delle specie di spirali come i movimenti in volo delle vespe. Per questo, il video è fatto di una serie di avvicinamenti e intrusioni: la telecamera spazia sulla superficie e cerca di entrare nei pertugi, poi lo sguardo naufraga nella materia osservata, confondendosi. A quel punto tutto ricomincia di nuovo in un altro nido. Nella scelta delle inquadrature e della struttura complessiva del video sono stata guidata in tutto e per tutto dalla materia e dalla morfologia di queste incredibili opere d’arte non umane.
Mah… è una specie di vertigine, ma è anche faticoso. Tutta questa prossimità obbligata con le cose alla lunga ha qualcosa di opprimente…
A me piace molto poter chiudere gli occhi, trovo che solo così lo sguardo diventa visione e spero che nei miei video questo aspetto “si veda” e, tanto più, che succeda anche in questo video, quando lo sguardo cerca di penetrare la materia, ma ne viene risucchiato finendo in una specie di buco nero…
Nata a Savona, Simonetta Fadda è artista, saggista e traduttrice. Oggi è anche docente all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano) e alla Scuola Civica di Cinema e Televisione “Luchino Visconti” (Milano). Dagli anni Ottanta lavora con i video, presentando le sue installazioni in gallerie e spazi pubblici in Italia e all’estero. I suoi video sono conservati in collezioni pubbliche e private in Italia e in Europa. Recentemente, si ricordano le sue partecipazioni a grandi appuntamenti internazionali come Movimenta – Biennale de l’image en mouvement, projet Mondes Flottants: Grandes Images, Nice – Francia (2017) e Parallel Program of the 13th Instanbul Biennial, Institut Français d’Instanbul, Instanbul – Turchia (2013). In Italia, ha partecipato ad eventi quali Satellite, Festival del Nuovo Cinema di Pesaro, Pesaro – Italia (2016) e Bergamo Film Meeting, Bergamo – Italia (2010). Le sue video-opere sono esposte al Museo di Sant’Agostino, Genova – Italia (2011), Museo d’Arte Moderna (MAMbo), Bologna – Italia (2008), Museo d’Arte (MAN), Nuoro – Italia (2008); Cinémathèque Française, Paris – Francia (2008); Kunst Haus Glogauer, Berlin – Germania (2007); Mach’mit Museum, Berlin – Germania (2007).
Nel 2009 ha realizzato con Giuseppe Baresi il documentario In una foto, sugli artisti che operavano nel quartiere di Brera, Milano, negli anni Sessanta (tra gli altri artisti, Piero Manzoni, Nanda Vigo, Ugo La Pietra). Oltre a numerosi articoli comparsi su riviste d’arte e in volumi collettanei, tra le sue pubblicazioni principali si ricorda il saggio Definizione zero: origini della videoarte fra politica e comunicazione (Costa & Nolan, Milano 1999), primo studio italiano sugli esordi del video come medium d’arte e di attivismo politico (nuova edizione ampliata 2017 per Meltemi, Milano).
Roberto Costantino, Presidente dell’Istituto Ligustico di Patafisica Contemporanea, è critico d’arte, curatore e giornalista