A tu per tu con Francesca Perona

 

Puoi dirci qual è stato il motivo che ti ha condotto a progettare Ceramica per l’Antropocene? Quale il senso di questo lavoro, per te.

Il progetto si è sviluppato durante la residenza Be Sm/ART2, per cui sono stata selezionata agli inizi del 2017. Sono stata attratta dall’opportunità di lavorare con la ceramica, un materiale affascinante a cui non mi ero mai avvicinata, ma soprattutto dalla grande opportunità di lavorare con 3 centri di eccellenza:

  • il Dipartimento di Ingegneria Energetica dell’Università di Genova specializzato nella ricerca su Smart Cities e sostenibilità energetica
  • la comunità di esperti ceramisti delle Albisole che continuano una tradizione ormai millenaria di lavorazione dell’argilla
  • il progetto DigifabTURINg di Co-de-iT al Fablab di Torino focalizzato sulla fabbricazione con braccio robotico, un ecosistema creato da codice e materiale.

Ho voluto che il lavoro prendesse forma attraverso la collaborazione con questi partners straordinari, e questo per me è il senso del progetto. Ogni realtà si trova rispecchiata nell’opera finale attraverso elementi inestricabilmente intrecciati, e su diversi piani di lettura.

L’elemento di congiunzione tra tutti è l’argilla, in tutti i suoi aspetti: dalla sua formazione geologica, alla sua eredità storica nel contesto savonese, alla sua influenza sulla cultura delle comunità passate e presenti, ai diversi processi di fabbricazione che si sono sviluppati, integrati, abbandonati, riscoperti attraverso secoli, fino ad una riflessione globale sul concetto di utilizzo delle risorse naturali presenti sul territorio in un contesto iper-industrializzato in cui tale valorizzazione del locale è stata soffocata dall’omologazione globale.

 

Quale difficoltà hai incontrato nel realizzarlo, cosa è cambiato in corso d’opera, come hai dovuto adattare il progetto alla realtà della situazione concreta e alle professionalità che hai trovato ad Albisola?

Siccome il progetto è stato senza dubbio ambizioso sin dalla sua concezione, e siccome è stato realizzato all’interno di una residenza di pochi mesi, il tempo è stato l’elemento con cui ci siamo dovuti confrontare ad ogni passo. La mancanza di tempo ci ha sicuramente portato a fare delle scelte ben precise, ad ottimizzare tutti i passaggi e abbandonare le idee più rischiose.

Credo che agli inizi tutti noi avessimo pensato di realizzare un piatto o un vaso. La sorpresa più grande per tutti, me per prima, è stato il momento in cui abbiamo realizzato che per comunicare le nostre idee dovevamo lavorare su una grande dimensione, sviluppando le lavorazioni in orizzontale piuttosto che in verticale. Questo cambiamento è stato possibile solo grazie alle grandi professionalità di Marco Tortarolo e Andrea Graziano e dei loro collaboratori, che hanno accolto la sfida con entusiasmo.

La mia fortuna è stata sicuramente di aver trovato un team di persone con una mentalità aperta alla sperimentazione pura e alle incertezze che la accompagnano.

 

Francesca Perona al lavoro insieme a Marco Tortarolo, ceramista albisolese che l’ha aiutata nella realizzazione dell’opera

 

E il rapporto con il braccio robotico?

Nonostante io lavori costantemente in ambito tecnologico, sono profondamente legata al concetto tradizionale di ‘craftsmanship’. Ci sono due pensieri che corrono paralleli nella mia mente. Da un lato credo profondamente nel valore della lavorazione manuale dei materiali, e nella figura dell’artigiano tradizionale come portatore di un’eredità millenaria. Allo stesso tempo, credo che le nuove tecnologie siano strumenti che nelle mani dell’artigiano prendano vita e rivoluzionino certi paradigmi di fabbricazione, ma anche dei paradigmi estetici. Esiste un movimento di ‘digital craftsmanship’, che è perfettamente rappresentato dai nostri partner eccezionali del FabLab di Torino e i cui strumenti sono matematica e codice per controllare il braccio robotico, ma allo stesso tempo martello e cacciavite per sistemare continuamente l’output del robot. Esiste tuttavia ancora un movimento tradizionale di artigiani che usano scalpelli, tornio e mani per creare oggetti che parlano di gestualità primordiali.

La domanda per me fondamentale è: come possiamo valorizzare entrambi gli approcci? Che spazio ha l’artigianato tradizionale in questa cosiddetta rivoluzione digitale? Il nostro progetto, tutto sommato, cerca di (iniziare a) rispondere a questa domanda. Per questo motivo, molto del lavoro sull’opera è il risultato della conoscenza manuale del materiale. Allo stesso tempo, il braccio robotico è stato utilizzato per esaltare la malleabilità del materiale e la sua capacità di prendere e mantenere forme intricate difficilmente producibili a mano, e soprattutto infinitamente riproducibili visto che questi macchinari hanno la capacità di ripetere lo stesso identico gesto con lo stesso identico output ogni volta, sulla base di un codice numerico. Ho puntato a utilizzare un set di dati per l’aspetto digitale dell’opera proprio per sottolineare il legame tra dati e forma.

 

Un dettaglio dei raggi realizzati con il braccio robotico del polo savonese dell’Università di Genova

 

Puoi raccontarci come i dati digitali della “smart grid” del Campus di Savona sono entrati nel tuo lavoro?

Il lavoro del Dipartimento di Ingegneria è estremamente interessante. Il Campus universitario di Savona viene gestito come una piccola Smart City, powered by energie rinnovabili. Lo scopo dei ricercatori è di riuscire a creare un sistema autonomo dalla rete nazionale e coprire completamente il fabbisogno energetico del Campus. Il concetto di autonomia delle risorse è estremamente contemporaneo e allo stesso tempo molto antiquato. Nel campo della fabbricazione digitale esiste tutta una nuova corrente di pensiero che vuole decentralizzare la produzione, e rimetterla nelle mani dei cittadini. Questo però significa anche decentralizzare le risorse e tornare a guardarsi intorno, a Km 0 e riscoprire quali sono le risorse presenti sul territorio che possono essere valorizzate con nuovi processi tecnologici. Questa è un’altra chiave di lettura del progetto Ceramica per lAntropocene.

Per questo ed altri motivi, il lavoro che abbiamo fatto con gli ingegneri è stato di analizzare tutti i dati collezionati nell’anno 2016 sulla produzione di rinnovabili e utilizzo delle risorse energetiche nazionali per paragonarle. Il risultato è stato proiettato sull’opera, che è diventata un grafico che rappresenta accuratamente queste proporzioni di autonomia e dipendenza da fonti energetiche locali e internazionali.

 

Come vedi ora questo lavoro, a un anno di distanza dalla sua progettazione? Con il senno di poi, cosa cambieresti nel tuo progetto oggi?

Ah, ottima domanda. In generale, sono molto soddisfatta del risultato.

Piccole cose che se dovessi rifarlo cambierei sono alcuni aspetti della rappresentazione dei dati, ma anche, mi piacerebbe giocare di più con l’irregolarità del bordo dell’opera, le incrostazioni di chamotte e la sua tridimensionalità. Ad un certo punto del progetto mi immaginavo di adagiare questa grande forma su uno stampo concavo, e ottenere una forma finale sempre a base rotonda, ma movimentata in altezza, quasi un vulcano. Per questioni tecniche e di tempo non siamo riusciti a realizzare questi aspetti…

 

L’opera di Francesca Perona installata nella sua posizione definitiva

 

Ceramica per l’Antropocene è stato un progetto importante per te? Che effetto ti fa oggi tornare a Savona?

Ceramica per lAntropocene è stato il mio progetto più impegnativo fin ora ma, forse, anche il più divertente. Ho avuto la fortuna di incontrare dei personaggi locali di una cultura e umanità incredibile, che hanno compreso a pieno il mio modo di lavorare e non hanno detto di no di fronte a nessuna richiesta, anche assurda. Credo che per molte delle persone coinvolte nel progetto questo sia stato un viaggio allo stesso tempo nel passato e nel futuro. Abbiamo fatto molti piccoli road trips in molte zone nei dintorni di Savona e le Albisole, fino ad un paesino sperduto sopra ad Albenga, alla scoperta di persone e luoghi. Ci siamo riempiti gli occhi della bellezza della Liguria e abbiamo affondato mani e piedi nell’argilla locale… Abbiamo esplorato il materiale in tutti i suoi stati e abbiamo sperimentato una molteplicità incredibile di tecniche e forme. Abbiamo intrapreso discussioni sul significato dell’ espressività del materiale dal punto di vista artistico, artigianale, ingegneristico e tecnologico… Non sarebbe stato proprio possibile chiedere di più.

Mi fa molto piacere tornare perché sono rimasta in ottimi rapporti con il territorio, dove sono anche nate delle amicizie profonde. Se potessi, rimarrei qui a lungo!

 

Conoscevi già il territorio savonese? E in che relazione eri con la ceramica?

Non conoscevo il territorio, ma nei mesi della residenza ho avuto modo di sviluppare attraverso una ricerca quasi antropologica la mia comprensione della storia della ceramica e del territorio, e come si siano plasmati a vicenda. Ho posto molte domande a tutti i partners del progetto, assorbendo tutto ciò che poteva essere utile per lo sviluppo del lavoro.

Allo stesso modo, non avevo mai lavorato con la ceramica ma la mia figura professionale si sviluppa attorno a una passione viscerale per i materiali e alla necessità di comprenderli e utilizzarli in contesti nuovi. Il mio background è puramente tessile, ma nel tempo ho approfondito la ricerca sui materiali in diversi ambiti e confrontandomi con diverse applicazioni e tecnologie.

Ho trovato la ceramica un materiale affascinante in tutti i sensi: dalla sua provenienza geologica e chimica, alle forme che assume grazie alla sua plasticità, alla trasformazione della sua morbidezza e malleabilità in una rigidità fragile, al suo respirare nel cambio di temperature, e a tutte le problematiche relative a questo suo continuo divenire.

 

È un materiale che ti vincola molto?

Ogni materiale ha i suoi vincoli. Nel caso della ceramica, credo sia molto difficile prevedere e raggirare questi vincoli senza confrontarsi con la figura dell’artigiano. Solo un personaggio che ha avuto modo di conoscere così intimamente il materiale può prevedere potenziali problemi. E’ solo grazie alla conoscenza di Marco Tortarolo che siamo riusciti a ottenere questi risultati, senza rompere nessun pezzo in cottura.

Diciamo che noi siamo andati a cercare compiti particolarmente difficili, avendo scelto di lavorare sia su una dimensione alquanto imponente come primo lavoro e sia di raffinare a mano delle terre ‘naturali’ locali senza nessuna assicurazione sul loro comportamento nel forno.

Però direi anche che siamo riusciti brillantemente a rispettare e valorizzare tutti gli umori e le sfumature del materiale e spingere al limite le sue possibilità. Questo ovviamente solo grazie a tutto il lavoro di preparazione del materiale e la quantità di provine che abbiamo prodotto. Dai 6 materiali inizialmente raccolti nel Savonese abbiamo prodotto come minimo un centinaio di miscele e varianti. E una minima parte di queste sono arrivate ad essere utilizzate nel lavoro finale.

 

Hai delle parole chiave che ti guidano in questo lavoro?

  • Terra – come materiale
  • Territorio – come percorso geografico che abbiamo svolto per realizzare l’opera
  • Lavorazione – della terra, come atto manuale, ma anche come processo digitale

 

Francesca Perona è nata nel 1986. Vive a Londra, dove lavora come designer e ricercatrice. Il suo approccio di ricerca multidisciplinare mira a integrare la scienza dei materiali, i processi scientifici e le tecniche di fabbricazione digitale. È interessata al comportamento dei materiali in ambito culturale, politico e ambientale che le consente di studiare pratiche di progettazione basate sulla sostenibilità. Il suo approccio di ricerca mira a integrare la scienza dei materiali, i processi scientifici e le tecniche di fabbricazione digitale.

 

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venerdì 9.30-13; 15.30-18.30
sabato 9.30-13; 15.30-18.30
domenica 9.30-17
lunedì 9.30-13

 

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